Un’opera maggiore. Si può ridere, come a una comica muta di Charlot,
si piange come a un film di Charlie Chaplin. Solo una volta, nella
mia lunga carriera, ho azzardato un confronto con Chaplin-Charlot:
ed è stato proprio per Roberto Benigni, attore protagonista nel film
di Marco Ferreri Chiedo asilo. E anche lì con un bambino al
fianco. Qui il bambino arriva più o meno alla metà della favola, ma
basta per farla volare alto, senza mai farle perdere però
l’equilibrio fra il pianto ed il riso. Il riso, prima; ma già con
amari sottofondi. L’Italia del Trenta, in provincia. Benigni, nipote
di un capo cameriere in un albergo che si atteggia al Grand Hotel di
Amarcord, arriva dalla campagna desideroso di aprire in città
una piccola libreria e, in attesa di ottenere dai burocrati locali i
permessi necessari, si adatta a fare il cameriere agli ordini dello
zio. Si imbatte, però, nella maestrina della scuola locale, che non
ha la “penna rossa” come quella di De Amicis, ma è, quasi da
bambina, fidanzata con un gerarchetto fascista sempre in attesa di
sposarla. Colpo di fulmine. Benigni, che come personaggio si è
chiamato Guido, passa sopra a tutto e a tutti pur di sposarla
seguendola ad ogni passo, fingendo spesso di incontrarla per caso
(come in un film di Troisi) e arrivando, per entrare nella scuola
dove insegna, a prendere il posto di un ispettore ministeriale
venuto da Roma per illustrare ai bambini il “mito della razza”,
improvvisando un discorso così fitto di battute e di gags esilaranti
da graffiare molto più di qualunque polemica. Anche perché va
chiarito subito che Guido è ebreo, come Charlot contro Hitler nel
Grande Dittatore, e, attorno, sia pure nelle cifre ovattate
della provincia, comincia a patire le prime conseguenze delle leggi
razziali varate di fresco. Colpo di scena, comunque, alla festa di
fidanzamento della maestrina nell’albergo parato a festa. Guido
smette di fare il cameriere e, a cavallo, come il Principe Azzurro,
si porta via, consenziente, l’amata maestrina. Il cavallo, però, dai
razzisti, è stato verniciato di verde con una scritta sopra:
“cavallo ebreo”... La favola dunque, e la farsa, ma già il dramma in
arrivo. Che, saltando a pie’ pari con felicissima ellissi altri
fatti lasciati intendere solo in modo implicito, si propone adesso
non appena Guido, sposato e con un bambino di cinque anni, Giosuè,
finisce tra le grinfie dei tedeschi che lo spediscono in un campo di
sterminio. L’orrore. Che però si accompagna ad un gioco, tenerissimo
ed insieme straziante. Guido, ormai, ha un solo pensiero, impedire
che Giosuè, in quell’inferno, si spaventi, così si dà a
interpretare, appunto come in un gioco per bambini, tutto quello che
accade nelle baracche del campo: fingendo di tradurre dal tedesco,
che non sa, ordini spietati che trasforma in regole per come vincere
giocando, disegnando in rosa, solo per suo figlio, tutto il nero che
poco a poco lì attorno si farà sempre più fosco: fino alla morte di
tutti gli altri bambini, fino alla possibilità, abilmente mentita,
di continuare la festa con dei bambini tedeschi; fino alla morte
anche di Guido, che però avrà la gioia di non avere fatto capire a
Giosuè nessuna di quelle atrocità e, sia pure ormai da solo, lo
vedrà avviarsi libero verso la vita: che, senza più la “favola” con
gli “orchi”, di nuovo può essere “bella”. In un racconto così
strutturato si sentono ovviamente anche la finezza ed il tatto di
uno scrittore come Vincenzo Cerami, oggi, ormai, tra i nostri
sceneggiatori più grandi; Benigni, però, seguendolo – anche come
attore e come regista – ci ha messo visibilmente di suo quelle
straordinarie possibilità che ormai possiede di esilarare e di
commuovere, sciorinando gags ad ogni svolta dell’azione ma via via
sostituendole, più procede verso la tragedia, con tensioni rarefatte
su cui fanno sempre perno lui che inventa per amore e il bambino
che, spesso comunque interdetto, ascolta la favola sforzandosi,
anche quando gli sembrano difficili, di seguirne le regole. In climi
in cui l’emozione dilaga e sul riso di prima, senza che niente
stoni, prende a poco a poco il sopravvento l’angoscia. Con il
sostegno, attorno, da un punto di vista strettamente
cinematografico, di tecniche capaci di adattarsi, quasi per magia,
alle intenzioni più ferventi dell’impresa: le scenografie di Danilo
Donati, intanto, che, sempre all’insegna di un reale di fantasia,
prima, nella cittadina e nell’albergo, si dilettano e ci dilettano
con il Liberty e dopo, nel campo, ne sfumano gli inferni
mitizzandoli appunto attraverso l’occhio di un bambino cui si
raccontano favole; poi, ma non da ultimo, la fotografia di Tonino
Delli Colli, con il compito arduo di riflettere, appunto,
l’equilibrio difficile fra il nero ed il rosa: rispettandolo
splendidamente. Anche per Benigni attore mi sento, ancora una volta,
di citare Charlot. Mediato qui, se vogliamo, anche un po’ attraverso
Woody
Allen: per una beffa che sa anche lacerare. Tenera e fragile, al suo
fianco, Nicoletta Braschi; di segno saldo e patetico, Giustino
Durano, lo zio; come se uscisse dalle cure di Comencini e De Sica,
Giorgio Cantarini, il bambino.
Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 18 dicembre 1997 |