Tra tutti i miti, gli aneddoti e i racconti apocrifi che circondano
la realizzazione del Padrinoce
n'è uno assolutamente vero: era un film che nessuno voleva realmente
fare, a cominciare da Francis Ford Coppola, i produttori della
Paramount e persino Mario Puzo. Non è l'unico paradosso che ha
caratterizzato la lavorazione di uno dei più grandi successi di
tutti i tempi: gli attori scelti da Coppola furono osteggiati dai
produttori sino al momento dell'inizio delle riprese, e Coppola fu
ripetutamente sul punto di essere licenziato, per l'iniziale
delusione dei produttori di fronte al materiale girato, e persino
per un complotto ordito dal montatore Aram Avakian il quale riferiva
alla Paramount che il materiale girato era inutilizzabile, sperando
di rimpiazzare il regista. Una nuova versione digitale e
rimasterizzata di questo straordinario capolavoro, curata
personalmente da Coppola, propone un documentario che racconta i
retroscena più sorprendenti della lavorazione e della distribuzione,
corredati da testimonianze di registi come Steven Spielberg, che
dichiara di essere stato «polverizzato dalla storia raccontata e
dall'effetto che ebbe su di me».
La Paramount acquistò i diritti del
libro di Mario Puzo per farne una pellicola di genere. Nessuno
riteneva che fosse necessario dedicarle un'attenzione superiore a
quella di un film di serie B, e dal suo canto lo scrittore non aveva
alcuna aspettativa: aveva scritto il libro per puri fini
commerciali, scoraggiato dalla mediocrissima accoglienza della
critica ai suoi primi lavori. Anche all'interno della Paramount
c'erano molte resistenze, dopo lo scarso successo di Fratellanza, un
film di ambientazione simile, diretto da Martin Ritt. Il genere
gangster sembrava in pieno declino, e le storie di mafia e famiglia
non apparivano attraenti per un pubblico in pieno rinnovamento
generazionale dopo i fervori del Sessantotto.
In un primo momento vennero
contattati Elia Kazan, Sergio Leone, Costa Gavras e Arthur Penn.
Nessuno di loro sembrò interessato, e venne quindi convocato Sani
Peckinpah, il quale lasciò sconcertati i suoi interlocutori
spiegando che avrebbe girato Il
Mucchio Selvaggio tra
i mafiosi. Fu Robert Evans ad avere l'idea di scritturare allora un
regista italo-americano, ma sul nome di Coppola si scatenò una netta
ostilità: i suoi primi film avevano ottenuto incassi disastrosi, e
quel regista barbuto che aveva fondato una propria casa di
produzione e si ostinava a vivere a San Francisco aveva una fama
terribile per Hollywood: pensava di testa propria. Tuttavia Coppola
riuscì ad affascinare i produttori grazie ai racconti della sua
famiglia italiana e al modo in cui spiegò che la saga dei Corleone
era la storia di un re che aveva tre figli: «Il primo ha ereditato
dal padre la dolcezza, il secondo la forza il terzo l'intelligenza».
Ma dopo l'iniziale momento di seduzione iniziarono le battaglie:
Coppola rifiutò di spostare la collocazione temporale del film
all'epoca delle riprese e l'ambientazione a St Louis, molto più
economica di New York. Per il ruolo di don Vito, la Paramount
propose una lista lunga e inverosimile di nomi (tra i quali Laurence
Oliviere persino Carlo Ponti) pur di non cedere all'idea di Marlon
Brando, in piena crisi di successo al botteghino.
Coppola si sentì ripetere infinite
volte «non farà questo film», e quando vinse la sua battaglia dopo
che Brando aveva accettato di sottoporsi ad un provino con dei
batuffoli di cotone all'interno delle guance, fece pronunciare la
battuta al produttore che si rifiuta di scritturare Johnny
Fontane/Frank Sinatra, e cede solo dopo che trova nel letto la testa
del suo purosangue prediletto. Proprio Sinatra fece pressioni
affinché il personaggio non potesse essere ricondotto a lui, e nel
giro di poco tempo arrivò un altro tipo di pressione, ben più
inquietante: un emissario della famiglia Colombo chiese ed ottenne
che la parola mafia non fosse pronunciata nel film. La battaglia sul
cast si spostò su altri fronti: Coppola era assolutamente convinto
del talento del semisconosciuto Al Pacino, ma per il ruolo di
Michael i produttori volevano Robert Redford o Ryan O' Neal.
Non diversa la lotta per i
comprimari, e se Robert Evans racconta non troppo scherzosamente che
pensava all'amico Henry Kissinger per il ruolo del Consigliori, Abe
Vigoda (Tessio) racconta nel documentario di essere stato scelto,
contro il parere dei dirigenti, perché era assolutamente
sconosciuto. Coppola riuscì ad imporre come musicista Nino Rota, ma
non fu facile convincere i finanziatori che il musicista di Fellini
fosse giusto per un gangster movie.
Non meno ardua la battaglia per
l'immagine del film: la grande idea di regia di offrire una
suggestione etica sin dalla fotografia spaventò a morte la
Paramount, ma entusiasmò Gordon Willis, che girò l'intero film in un
chiaroscuro molto contrastato, e, negli interni, non illuminò gli
occhi dei protagonisti. Ancora più ardua la battaglia sul montaggio:
il ritmo epico immaginato da Coppola, con lunghe digressioni
narrative alternate ad esplosioni di violenza, lasciò sconcertati i
responsabili dello studio e offrirono l'occasione ad Avakian di
proporre un montaggio alternativo, basato tutto sull'azione. Coppola
si rese conto per miracolo di quanto stava avvenendo e, licenziato
Avakian, riuscì a salvarsi dopo aver rimontato personalmente la
sequenza dell'omicidio di Sollozzo.
L'ultimo fronte si aprì sul
nepotismo: Coppola scritturò la sorella Talia nel ruolo di Costanza,
il padre Carmine per dirigere le musiche di Rota e persino la figlia
Sofia, appena nata: è lei ad essere battezzata nel finale del film.
Non solo: affidò al pupillo George Lucas il montaggio della guerra
di mafia. Anche quest'ultimo ricorda il clima di sfiducia e il
tentativo costante di licenziare Coppola. Alla prima del film
nessuno aveva grandi aspettative, ma Il
Padrino divenne
all'epoca il più grande successo di tutti i tempi, oltre che un
fenomeno culturale tuttora imprescindibile. Se ne accorse per primo
Henry Kissinger, allora segretario di Stato, che uscendo dalla prima
dichiarò: «È un film che parla a tutti: non è molto diverso da
quello che vedo ogni giorno a Washington».
Antonio Monda, La Repubblica, 28
settembre 2008 |