C’è speranza se questo
accade a Parigi. Il favoloso mondo di Amélie, di Jean-Pierre
Jeunet, è un albergo del sorriso. Il mondo così come sarebbe
piaciuto a Zavattini, e a Prévert, e a Carné: le fate e gli gnomi
possiamo essere noi, capaci di trasformare la realtà che ci circonda
con la sola forza dello sguardo.
Prendete Amélie Poulain (Audrey Tautou): avrebbe tutto il diritto
di tenere il muso da mattino a sera, di mandare a quel paese il
prossimo che le ha sempre giocato tiri poco simpatici. A partire dal
padre vedovo, prima medico e ora pensionato, sempre tanto triste ma
tanto triste da far venire l’angoscia appena lo si incrocia
(figurarsi crescerci insieme). La stessa Amélie, quasi quasi, ne
restava marchiata per tutta la vita: da bambina il cuore le batteva
forte forte, ogni volta che il genitore la visitava, e la diagnosi
di una grave malattia era sempre certa...
Ma ora Amélie è grande (in tutti i sensi) e ha superato molte
paure. Fa la cameriera in un bar in cui lavorano solo donne (e i
clienti sono praticamente solo uomini), sogna l’amore vero ed è
sicura, ma proprio sicura che un giorno arriverà. Nel frattempo
osserva le cose, gli altri, la città, sensibile a quei particolari
che sfuggono alla maggior parte della gente, oppressa dalla fretta e
dalla distrazione. Vede al di là dei muri, sente e conosce quello
che gli altri soltanto sfiorano, segue le tracce di un tizio un
po’fuori di testa, convinta che le cambierà la vita. E Jeunet ci
mette di suo una fantasia prodigiosa, un gioco infinito di
combinazioni e casualità, tenute insieme dal collante di un
divertito stupore narrativo. Sullo sfondo la Parigi dei nostri
sogni, quell’ente ideale che ognuno può costruirsi a piacere,
mischiando la sua personale sensibilità ai (perché no?) più triti
dei luoghi comuni.
Miracolo sotto la Tour Eiffel, capito dal pubblico e snobbato (in
un primo tempo) dai "sapientoni": all’ultimo Festival di Cannes il
film non era nemmeno stato selezionato. In sala - qualche volta c’è
giustizia a questo mondo! - è stato ed è un trionfo.
Luigi Paini, Il
Sole-24 Ore, 3 febbraio 2002 |